I SISTEMI DIMENTICATI
Saggio sulla storia del trifase a frequenza industriale e del monofase in Italia
Tavola riproducente tre dei principali gruppi di locomotive trifase a frequenza industriale che si sono avvicendante in Italia: a sinistra, la E.472 costruita dalla Breda; a destra, la E.470 costruita dal TIBB; al centro, la E.471 costruita dalla CEMSA. Quest’ultima avrebbe dovuto rappresentare l’inizio degli esperimenti sull’impiego del monofase nella Penisola. Disegno di Francesco Bochicchio.
Quando si parla di tante occasioni mancate o di soluzioni che avrebbero potuto essere meglio realizzate – in alcuni casi in anticipo rispetto ad altre realtà all’estero – l’Italia si figura sempre tra i primi posti nell’immaginario collettivo: dalla mancata acquisizione di Trento nel 1866 allo Schiaffo di Tunisi del 1878, fino ad arrivare alla sconfitta di Adua e al mancato sfruttamento del ricco sottosuolo libico. Forse, caritatevolmente, è fin troppo facile giudicare severamente le vicende di un paese pieno di contraddizioni che, a quel tempo, era tutto da costruire e perciò impossibilitato a reagire adeguatamente alle contingenze.
Nei decenni immediatamente successivi al 1861, spesso e volentieri, non si raggiunsero quei traguardi teorizzati con il movimento risorgimentale per migliorare il benessere degli italiani, non solo per la parte concernente la politica estera ma anche per la politica interna, dove molte cose furono fatte con tendenziosità. In molti casi, le classi dirigenti dimostrarono un chiaro senso di scarsa comprensione della delicata e fragile realtà italiana, in un momento particolarmente delicato come quello tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.
Tali cliché li possiamo vedere replicati in un’altra storia estremamente affascinante, ma spesso trascurata dalla maggior parte degli italiani: la nascita, sviluppo, le questioni correlate e il declino del sistema trifase a frequenza industriale, e di tutti gli studi ed esperimenti a esso connesso. Il più celebre tra questi esperimenti rimase il tentativo di introdurre in Italia il sistema d’alimentazione elettrica monofase in campo ferroviario, il quale avrebbe raccolto numerosi consensi in Europa centrale tra il 1920 e il 1930, per poi diventare alla fine del XX secolo la tensione impiegata sulle linee ferroviarie ad alta velocità del Vecchio Continente.
Scopo di questo breve saggio è di risvegliare l’interesse nei confronti di un’esperienza molto importante del settore ferroviario nel nostro paese, ricontestualizzandola in un periodo storico contrassegnato dagli immani sforzi di rendere competitiva l’Italia nel campo delle comunicazioni terrestri, favorendone così la sua bilancia commerciale.
L’interesse per queste vicende è iniziato recentemente per via delle interessanti immagini individuate con entusiasmo da alcuni amici, Davide Napoli e Arnaldo Vescovo in primis, le cui pubblicazioni sui social networks sono sempre state correlate da interessanti descrizioni e discussioni sull’argomento. Ciò è bastato ad accendere una viva curiosità nelle giovani leve.
Grazie a queste spinte provenienti dai social networks, ho colto la possibilità – verificatasi all’inizio dell’estate 2020 – di entrare in possesso, grazie a Franco Dell’Amico, di un libro particolarmente accattivante: E.471 locomotive di sogno, scritto dall’ingegner Erminio Mascherpa, pubblicato nel 2005 con la Nicolodi Editore. Esso è un libro ricco di dettagli e aneddoti straordinari, utilissimo per conoscere uno dei capitoli meno noti della storia delle nostre ferrovie, restituendo un quadro d’insieme affascinante da cui ho tratto le considerazioni che ritroverete in questo saggio.
Ritengo comunque che, prima di approfondire, sia doveroso fare una cospicua contestualizzazione del periodo storico che porterà alla nascita del sistema trifase a frequenza industriale nel Lazio e in Abruzzo, e sull’avvicendarsi del sistema monofase.
Il giovane Regno d’Italia, nei cinquant’anni successivi alla sua unificazione, si ritrovò a fronteggiare numerosi e difficili problemi legati allo sviluppo consapevole e organico delle proprie vie di comunicazione. Tale approccio aveva come scopo l’apertura progressiva delle plurisecolari economie chiuse dell’Italia al mercato capitalistico moderno. Riferendoci all’opera Le ferrovie di Stefano Maggi, la nascita e lo sviluppo delle ferrovie nello Stivale serviva per convogliare attraverso l’Italia e il Mediterraneo la maggior parte dei grandi traffici di merci lungo la direttrice ovest-est del Vecchio Continente, e dall’Europa verso l’Asia e l’Africa.
Tralasciando la conclamata ottusità di molte genti italiane non particolarmente liete di abbandonare i loro plurisecolari e consolidati metodi di produzione, l’impresa di ammodernamento delle vie di comunicazione – attraverso la costruzione di ferrovie e la ristrutturazione delle esistenti – di certo non fu facile dal momento che il territorio italiano presentava notevoli difficoltà dal punto di vista orografico, alle quali si aggiungevano carenze di tipo finanziario. Da aggiungere poi la scarsa presa di posizione dell’Italia in politica estera, che non permetteva al paese di imporsi a livello economico e commerciale nel panorama europeo e mediterraneo.
Nonostante gli immani sforzi fatti da una nazione ancora economicamente debole per dotarsi di una rete ferroviaria abbastanza estesa ed efficiente, già sul finire dell’Ottocento alcuni ma significativi aspetti deficitari del sistema treno iniziarono a mostrare i propri effetti negativi: oltre alle difficoltà di carattere orografico che ne limitavano fortemente le prestazioni, era necessario importare enormi quantità di carbone di qualità dall’estero per permettere il corretto funzionamento delle locomotive a vapore – dal momento che in Italia non esistevano giacimenti di combustibile che potessero soddisfare tutto il fabbisogno nazionale – con gravi ricadute sulla nostra economia.
In virtù di queste problematiche, divenne improrogabile, a circa quarant’anni dall’unificazione, il problema di adottare degli accorgimenti radicali volti al potenziamento del servizio ferroviario in Italia.
La questione divenne all’ordine del giorno al momento della creazione delle ferrovie sotto la gestione statale nel 1905. Di fatti, l’interesse dei numerosi tecnici ferroviari all’inizio del Novecento si rivolse, a quel punto, nei confronti di quei piccoli tronchi ferroviari che utilizzavano la trazione elettrica per l’alimentazione delle locomotive, intravedendone nella loro espansione a livello nazionale la possibilità d’incrementare il volume di traffico di merci e passeggeri attraverso il nostro paese, ma soprattutto cogliendo la ghiotta occasione di limitare sistematicamente l’importazione di carbone dall’estero.
C’erano però molte riserve su una possibile estensione della trazione elettrica in Italia, in quanto gli esperimenti fino ad allora condotti si erano limitati esclusivamente a tronchi di carattere esclusivamente locale, alimentando i dubbi che un motore elettrico potesse eguagliare, o superare, il consolidato motore a vapore.
Sfidando gli scetticismi, già verso la fine dell’Ottocento furono condotti alcuni importanti esperimenti per utilizzare l’energia elettrica per far muovere i treni, patrocinata da una circolare ministeriale[1] che incentivava lo sfruttamento dei salti idraulici nel territorio nazionale, tale da permettere la nascita di nuove aziende idroelettriche, approvata nel 1898 dall’allora Ministro dei Lavori Pubblici Afan de Rivera.
Tali iniziative sembravano far presagire un massiccio impiego dell’energia elettrica in campo ferroviario e non solo, e pareva finalmente che
l’Italia iniziasse a divincolarsi dalla posizione di arretratezza nella quale si trovava. Muovendosi verso un’ottica di profondo rinnovamento economico e tecnologico, gli sforzi ministeriali culminarono con le iniziative intraprese sulla Milano – Monza nel 1899 – con automotrici ad accumulatori – e sulle linee tra Lecco, Colico, Chiavenna e Sondrio nel 1902.
Dal punto di vista dei primati, gli interventi adottati nell’alta Lombardia furono riconosciuti come i primi esempi a livello internazionale con risultati soddisfacenti d’esercizio di treni elettrici su linee ferroviarie tradizionali. Per quest’ultimi, l’Italia aveva saputo coinvolgere le menti più fervide impegnate negli studi delle applicazioni dell’energia elettrica in campo ferroviario. La presenza dell’ungherese Kálmán Kandó[2], infatti, testimonia l’elevato grado di attrattività che questo progetto italiano aveva riscosso all’estero.
Non solo nell’alta Lombardia, ma anche con l’inaugurazione del primo condotto della galleria del Sempione nel 1905 si raggiunse un altro grande risultato per l’impiego della trazione elettrica nel campo ferroviario: dalla città di Sion, nel Canton Vallese, fino a Iselle di Trasquera, in Piemonte, l’esercizio regolare fu affidato a locomotive elettriche (trifase, per la precisione).
La galleria del Sempione possedeva una grande importanza strategica per l’Italia, tale da venire considerata come uno degli assi di transito fondamentali per il commercio intercontinentale e non solo. E la scelta di elettrificare la linea ferroviaria che vi transitava permetteva di aumentarne l’efficienza ovviando così ai limiti espressi dall’utilizzo della trazione a vapore.
Vale la pena ora soffermarci sui sistemi adottati per queste due pietre miliari della storia della trazione elettrica ferroviaria. Infatti, sulle linee della Valtellina (dapprima solo a 3000V) e del Sempione (a 3600V) si era optato per utilizzare un sistema a corrente alternata trifase, il quale stava dando notevoli soddisfazioni dal punto di vista dell’esercizio.
Tale sistema aveva indotto numerosi investitori stranieri a venire in Italia per finanziare la produzione di locomotive elettriche a 3600V con frequenza 16,5 Hz, il cui esempio principe fu rappresentato dalla decisione della società americana Westinghouse[3] di aprire un proprio stabilimento a Vado Ligure, in Liguria, nel 1907 orientato alla costruzione di locomotive trifase. In tale stabilimento trovò impiego proprio Kálmán Kandó con il suo seguito di tecnici ungheresi, reduci dagli esperimenti di Valtellina.
Visti questi successi, il primo direttore delle Ferrovie dello Stato, ingegnere Giuseppe Bianchi, era stato sin dal 1905 uno dei più accesi sostenitori dell’elettrificazione[4] della rete ferroviaria nazionale.
Egli aveva promosso, tra il 1910 e il 1915, l’adozione del nuovo sistema di trazione in diverse linee del nord-ovest, centrali dal punto di vista strategico e logistico – adatte sia per questioni di carattere sia commerciale sia militare – per il paese. Più precisamente, gli interventi[5] riguardarono le linee ferroviarie dei Giovi, del Frejus, la Savona – Ceva e la Monza – Lecco, che destarono una profonda ammirazione all’estero constatando l’aumento del volume di traffico lungo queste direttrici.
Fino a questo momento abbiamo parlato esclusivamente di luci, seguendo uno schema e una linea di narrazione in positivo. Non tutto era buono poiché, secondo Mascherpa, la circolare firmata dal ministro De Rivera nel 1898 presentava molte difficoltà[6] sul piano attuativo: il nascente sistema di alimentazione a corrente alternata trifase a 3600V, infatti, costringeva le imprese elettriche a dotarsi di particolari macchinari per produrre la speciale frequenza ferroviaria adatta per l’alimentazione.
Tali aziende non potevano fondarsi esclusivamente sul rifornire l’alimentazione elettrica per le ferrovie poiché sarebbero fallite all’istante, per cui cercavano di diversificare il più possibile la forbice della clientela a cui rivendere la loro energia. Per cui, possiamo affermare che lo sforzo per raggiungere la tanto agognata indipendenza energetica del paese fu arrestata dalle circostanze, una delle tante occasioni mancate all’italiana.
A quel punto, molte aziende idroelettriche cominciarono a chiedere a gran voce che s’intraprendessero dei nuovi esperimenti su un altro sistema di alimentazione elettrica in campo ferroviario, scopo per cui si erano formate.
E un’alternativa accattivante che si prospettò all’orizzonte fu la comparsa dell’alimentazione a corrente alternata trifase a frequenza industriale (45/50 Hz) – nata quasi parallelamente a quella classica dalla frequenza di 16,5 Hz – che avrebbe permesso a questi industriali di entrare nel settore ferroviario poiché tale frequenza era utilizzata per tutti gli usi di carattere domestico[7].
Le prime reti ferroviarie alimentate a trazione trifase a frequenza industriale erano nate nella zona di Varese, in Valganna[8], alla fine dell’Ottocento, e avevano evidenziato delle ottime potenzialità. Dobbiamo ricordare che, dopo la Prima Guerra Mondiale, nel frattempo erano stati avviati degli altri esperimenti sull’impiego dell’alimentazione in corrente continua, in particolare sulla linea Torino – Ceres nel 1920.
La questione da porsi, a quel punto, era su quale sistema di alimentazione elettrica avrebbe dovuto diventare quello da adottare a livello nazionale: il classico trifase a 3600V, superato ma ancora valido; il nascente sistema a corrente continua, dapprima a 4000, poi a 3000V; e il tanto apprezzato, ma mai veramente e pienamente affermato, sistema trifase a frequenza industriale a 10000V.
Fu gioco forza che, verso la fine della Prima Guerra Mondiale, lo scontro d’interessi divenne inevitabile, quando l’Italia necessitava di elettrificare completamente la propria rete ferroviaria nazionale per abbattere il suo grande debito pubblico venutosi a creare dopo le vicende belliche.
L’ingegner Mascherpa annota che, a quel tempo, le considerazioni emerse sulla questione furono tra le più disparate: salta all’occhio l’opinione negativa dell’ingegner Giuseppe Bianchi[9] il quale, nel corso degli anni ’20, voleva progressivamente abbandonare il sistema trifase – anche quello a frequenza industriale – a favore di quello in corrente continua, cambiando decisamente opinione rispetto a quindici anni prima; mentre l’ingegner Barbagelata[10], sull’importante rivista l’Elettrotecnica, si espresse a favore di una maggiore promozione del trifase, e in special modo quello a frequenza industriale.
Nel grande calderone del dibattito nazionale, aveva pesato moltissimo l’acquisizione dello stabilimento Westinghouse di Vado Ligure da parte del gruppo TIBB[11] di Milano, avvenuto dopo la guerra. Lo stabilimento, infatti, era rimasto privo dell’importantissimo apparato di ingegneri e progettisti ungheresi di Kandò, poiché quest’ultimi erano stati confinati in Sardegna in quanto cittadini di un paese nemico.
Senza gli ungheresi, lo stabilimento piombò in una grave crisi che fu risolta soltanto con il suo passaggio nel gruppo Tecnomasio, la cui dirigenza era dichiaratamente anti-trifase e a favore della corrente continua.
Da quello che ci riporta l’ingegner Mascherpa, a decidere le sorti del sistema d’alimentazione per le FS fu il Consiglio Superiore delle Acque[12], dependance del Ministero dei Lavori Pubblici, che optò per compiere una serie di esperimenti dividendo l’Italia in tre zone: Il Settentrione, ad appannaggio dei 3600V in trifase; il Centro, dove si sarebbe sviluppata la trazione trifase a frequenza industriale (45 Hz) a 10000V; e il Sud, dove si sarebbe proceduto a vari esperimenti con la corrente continua.
A quel tempo, sembrava che i sostenitori del trifase avessero vinto, in quanto il Ministero aveva designato come loro zone di influenza quelle maggiormente sviluppate dal punto di vista commerciale in Italia.
Tra il 1920 e il 1922, infatti, fu decretata l’elettrificazione in trifase delle principali linee ferroviarie del paese: Milano – Bologna, mai attuata; Bologna – Porretta – Pistoia, completata nel 1928; Trento – Bolzano – Brennero, completata nel 1928; Faenza – Borgo San Lorenzo – Firenze, mai completata; Roma – Napoli, mai attuata; Roma – Anzio, mai completata; e Roma – Avezzano, inaugurata nel 1928 con la prospettiva di proseguire verso l’importante ferrovia Adriatica[13].
Queste ultime due linee ferroviarie furono designate per sperimentare la frequenza industriale, con il proposito di elettrificare successivamente la nuova Direttissima Roma – Napoli via Formia (che verrà inaugurata nel 1928, ma con trazione a vapore), tale da portare le quattro direttrici[14] più importanti del paese sotto la corrente alternata trifase.
Due iconiche locomotive trifase a frequenza industriale costruite dal TIBB: a sinistra, la E.470.004, la versione a 10000V delle note E.431; a destra, la E.570.001, versione a 10000V delle note E.551. La E.470.004 monta il vomere grande delle locomotive a vapore, adatto per affrontare gli inverni difficili sulla Roma – Sulmona. Disegno di Francesco Bochicchio
A quel punto, si procedette all’ordinazione delle locomotive a frequenza industriale[15] nel giugno 1922: dapprima, con le quattro locomotive per treni passeggeri veloci del gruppo E.470 (riclassificate E.470.001-004), commissionate agli stabilimenti di Vado Ligure della Tecnomasio Italiano Brown Boveri, da considerarsi come la versione a frequenza industriale delle ben più note E.431[16] a 3600V; le dieci locomotive per treni passeggeri pesanti del gruppo E.471, commissionate alla CEMSA, di cui parleremo più avanti; le prime dieci locomotive del gruppo E.472 da 2000kW di potenza, commissionate alla Breda[17] (che effettuarono nel 1925 le prime soddisfacenti prove sulla linea del Frejus); e le quattro locomotive del gruppo E.570, commissionate agli stabilimenti di Vado Ligure della TIBB, da considerarsi come la versione a frequenza industriale delle ben più note E.551[18] a 3600V. Nel 1929 si aggiunsero altre sette locomotive del gruppo E.472[19], in seguito alla decisione di elettrificare il difficile tratto Avezzano – Sulmona.
La E.472.001, costruita dalla Breda nel 1925, fu la più indovinata locomotiva per le linee alimentate a 10000V. Disegno di Francesco Bochicchio.
Ma altri e ben più gravi impedimenti avrebbero ostacolato il cammino del trifase a frequenza industriale in Italia: se all’apparenza il fronte costituito intorno a esso pareva molto forte, quest’ultimo alla fine si dissolse miserevolmente alle prime difficoltà.
Tra il 1922 e il 1928, aumentarono, infatti, improvvisamente e in modo assai vertiginoso confusioni, dispute e controversie, che Erminio Mascherpa definì, giustamente, un sistema d’imbroglio[20] che colpì duramente il trifase a 10000V.
In primo luogo, l’ascesa al potere da parte del Fascismo comportò una grave battuta d’arresto: con l’istituzione di un commissario straordinario[21] tra il 1922 e il 1924 per risanare il terribile bilancio delle FS e, successivamente, con il passaggio della gestione delle stesse dal Ministero dei Lavori Pubblici a quello delle Comunicazioni, si ordinò una massiccia sterzata nelle politiche aziendali. In questo modo furono privilegiati gli aspetti relativi al servizio, piuttosto che quelli dedicati alle infrastrutture e alla ricerca, per mantenere stabili i conti.
Tali manovre rallentarono l’elettrificazione della ferrovia Roma – Avezzano, che venne ultimata solamente nel 1928, poco dopo l’ottima riuscita degli esperimenti d’esercizio a 3kV nel Mezzogiorno. Un ritardo che non permise di verificare e correggere gli inevitabili errori di gioventù del trifase a 10000V, mentre molte locomotive dei gruppi E.470, E.570 ed E.472 erano già state consegnate nel 1925.
Altro duro colpo arrivò dalla commissione delle ben riuscite locomotive dei gruppi E.432 ed E.554 che sviluppavano una potenza 2000kV sotto la classica frequenza trifase a 3600V, le quali facevano concorrenza alle consorelle a 10000V.
A peggiorare la situazione, contribuì il fatto che le Ferrovie dello Stato avessero deciso di rimuovere i pali a traliccio[22] già posizionati lungo la linea Roma – Anzio per reimpiegarli sulla Avezzano – Sulmona, linea ferroviaria con una scarsa importanza strategica. Si perse così l’interesse di elettrificare la Direttissima Roma – Napoli, facendo pendere l’ago della bilancia a favore della corrente continua.
Una tra le più gravi ragioni, che fecero scrivere la parola fine sul sistema a frequenza industriale, fu l’affacciarsi sullo scenario italiano del sistema d’alimentazione a corrente alternata monofase[23], per volontà di un trifasista di rilievo come Kálmán Kandó e del suo socio Nicola Romeo, fondatore della CEMSA.
Kandò e la CEMSA erano, infatti, le ultime roccaforti del trifase italiano dopo la dipartita della Westinghouse. Senza di loro, tale sistema non possedeva più alcun appoggio dopo i successi della corrente continua sulla Benevento – Foggia.
E così si concluse dolorosamente, ancor prima di iniziare, la stagione del trifase a frequenza industriale in Italia, condannato a un lento ma inesorabile declino.
Kálmán Kandó, invece, voleva proporre il nuovo sistema monofase con le locomotive del gruppo E.471 – progettate per essere bicorrente[24] trifase/monofase – che, a suo avviso, presentava notevoli vantaggi in termini di prestazioni rispetto al sistema trifase. E di fatti non si sbagliava, in quanto tale sistema si sarebbe poi imposto in buona parte dell’Europa centrale e, alcuni decenni più tardi, nei servizi ad alta velocità.
Ma dopo la Prima Guerra Mondiale, pareva che la carriera del grande progettista ungherese fosse giunta al capolinea. A dare una possibilità concreta a Kálmán Kandó di riprendere la sua attività fu Nicola Romeo, imprenditore napoletano. Romeo aveva acquistato un certo numero di imprese durante il conflitto – tra cui l’Alfa, poi denominata Alfa-Romeo[25] – e aveva fondato nel 1925 la società per azioni CEMSA[26], allo scopo gestire meglio un’impresa di costruzioni ferroviarie acquistata a Saronno nel 1918.
L’incontro tra il tecnico ungherese e l’imprenditore napoletano fu possibile attraverso la mediazione dell’ingegner Pontecorvo[27], il referente tecnico[28] della società Romeo per le locomotive elettriche, amico e collega di Kandò precedentemente in Westinghouse. Per Pontecorvo fu facile convincere sia Kandò a collaborare nelle società dell’imprenditore napoletano, sia Romeo ad accogliere le idee del brillante tecnico ungherese.
Dopo un fausto incontro organizzato tra Romeo e Kandò, il rapporto di collaborazione di questi due personaggi si rivelò tutt’altro che semplice, contrassegnato da continue instabilità, conflitti, successi e insuccessi: dapprima, con la commissione delle quindici locomotive trifase a 3600V per treni merci del gruppo E.552[29], rivelatosi un fallimento; poi, con le quaranta unità del gruppo E.333[30] (sempre a 3600V) per treni viaggiatori, un prodotto ben riuscito; infine, con le avveniristiche E.471, che avrebbero dovuto essere le più potenti locomotive trifase in virtù dei loro 3270kW[31], commissionate nel 1922 e previste per il settembre 1923[32].
Tali mezzi ferroviari avevano adottato degli allestimenti della cassa[33] che verranno ripresi sulle locomotive diesel costruite nel secondo dopoguerra: la cabina era posta, infatti, a una delle due estremità – a vantaggio della sicurezza del personale – mentre il motore e le altre apparecchiature trovavano posto nell’altra estremità.
Furono le E.471 a costituire la pietra tombale dell’incerta collaborazione tra Kandò e Romeo – nonché della CEMSA stessa – in quanto il tecnico ungherese, tra il 1922 e il 1926, si ritrovò molto spesso a viaggiare tra gli Stati Uniti, l’Austria e l’Ungheria per studiare, sperimentare e migliorare i suoi progetti. Tali viaggi all’estero fecero ritardare la consegna dei brevetti alla CEMSA, provocando dei sentimenti di accesa irritazione non tanto nelle FS, quanto in Nicola Romeo stesso.
Tavola raffigurante la E.471.001, la locomotiva che avrebbe dovuto rivoluzionare la storia della trazione elettrica sulle Ferrovie Italiane. Disegno di Francesco Bochicchio.
Il progettista ungherese, però, non stava viaggiando all’estero per sfuggire agli impegni presi con gli italiani. Kandò, infatti, stava conducendo tra il 1922 e il 1926 una serie di esperimenti per perfezionare il sistema monofase. Nonostante i fallimenti conseguiti in Austria con le due sfortunate locomotive 1470.001 e 1180.001 BBÖ[34], previste per la linea dell’Arlberg, il tecnico ungherese riuscì a ottenere alcuni risultati soddisfacenti con la locomotiva V 50.001 tra Budapest e Vienna.
I dati raccolti furono tali da convincere il paese magiaro a dotarsi di un sistema d’alimentazione monofase a 50 Hz[35], con grande soddisfazione per il tecnico ungherese. Gli sforzi compiuti da Kandò in Ungheria furono coronati dal definitivo successo con l’entrata in servizio tra Vienna e Budapest nel 1932[36], dopo la sua morte, delle nuove locomotive monofase dei gruppi V 40 e V 60.
Nel frattempo in Italia, finalmente furono superati i problemi di natura burocratica per la realizzazione delle E.471, con la consegna dei brevetti. Nonostante le intenzioni iniziali, quest’ultime non vennero attrezzate per essere alimentate in monofase, ma unicamente in trifase[37] a 10000V per imposizione ministeriale. Uno dei punti di forza per cui le E.471 erano state concepite, veniva così gravosamente a mancare.
Va ricordato che le FS non diedero mai il loro consenso per effettuare degli esperimenti sul monofase. In tal modo, si perse la possibilità di adottare, per primi, un sistema che avrebbe avuto poi un grande successo in Europa[38], in virtù dei numerosi vantaggi che il monofase possedeva. Una delle tante occasioni mancate all’italiana.
E la costruzione delle E.471, iniziata nel 1926 con le modifiche citate poco sopra, arrivò in un momento in cui il trifase in Italia stava tramontando a favore della corrente continua.
Con grande ritardo rispetto alle previsioni iniziali, furono consegnate da CEMSA soltanto due E.471 sulle dieci previste – rinumerate E.471.001 ed E.471.002 – le quali intrapresero delle prove sulle linee Monza – Lecco, Bologna – Porretta – Pistoia (anche se non è mai stato confermato con certezza) e nel centro Italia. Tali prove non diedero, purtroppo, i risultati sperati.
A quel punto, le Ferrovie dello Stato, intravedendo la possibilità di chiudere una controversia (durata anche troppo), optarono per non accettare più la fornitura delle ultime otto E.471[39] ancora in costruzione, decretando anche il fallimento della CEMSA.
A differenza di quanto accaduto in Ungheria, gli italiani non diedero la possibilità a Kandò di correggere in tempo gli errori riscontrati durante le prime prove delle E.471, lasciando aperti alcuni interrogativi sull’atteggiamento che le FS adottarono in tale occasione.
A differenza delle E.471, gli altri gruppi di locomotive trifase a frequenza industriale continuarono a svolgere i loro servizi sull’Appennino, lungo quell’unica linea ferroviaria alimentata a 10000V, non senza qualche difficoltà. Le Ferrovie Italiane abbandonarono ogni prospettiva di investire denaro ed energie nei confronti di questo sistema, confortate com’erano dai brillanti risultati della corrente continua.
E alla fine della Seconda Guerra Mondiale[40], a causa delle gravi distruzioni scaturite della ritirata tedesca, le Ferrovie dello Stato optarono per demolire tutte le locomotive trifase a frequenza industriale che erano scampate al conflitto.
Le demolizioni del secondo dopoguerra posero la parola fine a una grande stagione di esperimenti sulla trazione elettrica in campo ferroviario, cancellando completamente ogni traccia della presenza del trifase a 10000V nello Stivale.
[1] Erminio Mascherpa, E.471. Locomotive di sogno, Nicolodi editore, Rovereto 2005, p. 37.
[2] Erminio Mascherpa, E.471. Locomotive di sogno, Nicolodi editore, Rovereto 2005, p. 39.
[3] Erminio Mascherpa, E.471. Locomotive di sogno, Nicolodi editore, Rovereto 2005, p. 40.
[4] Erminio Mascherpa, E.471. Locomotive di sogno, Nicolodi editore, Rovereto 2005, p. 37.
[5] Erminio Mascherpa, E.471. Locomotive di sogno, Nicolodi editore, Rovereto 2005, p. 37.
[6] Erminio Mascherpa, E.471. Locomotive di sogno, Nicolodi editore, Rovereto 2005, p. 38.
[7] Erminio Mascherpa, E.471. Locomotive di sogno, Nicolodi editore, Rovereto 2005, p. 13.
[8] Erminio Mascherpa, E.471. Locomotive di sogno, Nicolodi editore, Rovereto 2005, p. 41.
[9] Erminio Mascherpa, E.471. Locomotive di sogno, Nicolodi editore, Rovereto 2005, p. 39.
[10] Erminio Mascherpa, E.471. Locomotive di sogno, Nicolodi editore, Rovereto 2005, p. 41.
[11] Tecnomasio Italiano Brown Boveri.
[12] Erminio Mascherpa, E.471. Locomotive di sogno, Nicolodi editore, Rovereto 2005, p. 42.
[13] Erminio Mascherpa, E.471. Locomotive di sogno, Nicolodi editore, Rovereto 2005, p. 42.
[14] Milano – Napoli; Modane – Torino – Genova – Roma – Napoli; Milano – Bologna – Ancona – Bari; Brennero – Verona – Roma.
[15] Erminio Mascherpa, E.471. Locomotive di sogno, Nicolodi editore, Rovereto 2005, p. 40.
[16] Giovanni Cornolò, Locomotive elettriche FS, Ermanno Albertelli Edizioni, Parma 1994, p. 174.
[17] Giovanni Cornolò, Locomotive elettriche FS, Ermanno Albertelli Edizioni, Parma 1994, p. 172.
[18] Giovanni Cornolò, Locomotive elettriche FS, Ermanno Albertelli Edizioni, Parma 1994, p. 178.
[19] Erminio Mascherpa, E.471. Locomotive di sogno, Nicolodi editore, Rovereto 2005, p. 40.
[20] Erminio Mascherpa, E.471. Locomotive di sogno, Nicolodi editore, Rovereto 2005, p. 37.
[21] Stefano Maggi, Le ferrovie, Il Mulino, Bologna 2017, pp. 165-167.
[22] Erminio Mascherpa, E.471. Locomotive di sogno, Nicolodi editore, Rovereto 2005, p. 49.
[23] Erminio Mascherpa, E.471. Locomotive di sogno, Nicolodi editore, Rovereto 2005, p. 49.
[24] Erminio Mascherpa, E.471. Locomotive di sogno, Nicolodi editore, Rovereto 2005, p. 20.
[25] Erminio Mascherpa, E.471. Locomotive di sogno, Nicolodi editore, Rovereto 2005, p. 11.
[26] Erminio Mascherpa, E.471. Locomotive di sogno, Nicolodi editore, Rovereto 2005, p. 12.
[27] Erminio Mascherpa, E.471. Locomotive di sogno, Nicolodi editore, Rovereto 2005, p. 17.
[28] Erminio Mascherpa, E.471. Locomotive di sogno, Nicolodi editore, Rovereto 2005, p. 17.
[29] Erminio Mascherpa, E.471. Locomotive di sogno, Nicolodi editore, Rovereto 2005, p. 19.
[30] Erminio Mascherpa, E.471. Locomotive di sogno, Nicolodi editore, Rovereto 2005, p. 27.
[31] Giovanni Cornolò, Locomotive elettriche FS, Ermanno Albertelli Edizioni, Parma 1994, p. 181.
[32] Erminio Mascherpa, E.471. Locomotive di sogno, Nicolodi editore, Rovereto 2005, p. 27.
[33] Giovanni Cornolò, Locomotive elettriche FS, Ermanno Albertelli Edizioni, Parma 1994, p. 131.
[34] Erminio Mascherpa, E.471. Locomotive di sogno, Nicolodi editore, Rovereto 2005, p. 72.
[35] Erminio Mascherpa, E.471. Locomotive di sogno, Nicolodi editore, Rovereto 2005, p. 76.
[36] Erminio Mascherpa, E.471. Locomotive di sogno, Nicolodi editore, Rovereto 2005, p. 76.
[37] Erminio Mascherpa, E.471. Locomotive di sogno, Nicolodi editore, Rovereto 2005, p. 76.
[38] Erminio Mascherpa, E.471. Locomotive di sogno, Nicolodi editore, Rovereto 2005, p. 76.
[39] Erminio Mascherpa, E.471. Locomotive di sogno, Nicolodi editore, Rovereto 2005, p. 28.
[40] Erminio Mascherpa, E.471. Locomotive di sogno, Nicolodi editore, Rovereto 2005, p. 127.