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Questo non è soltanto il racconto di un viaggio in ferrovia, per quanto particolare e avventuroso esso sia stato. Dopo quasi quaranta anni, in effetti esso si rivela, piuttosto, un viaggio nella memoria che si svolge lungo giorni e luoghi che si allontanano vieppiù nel tempo. Il viaggio venne organizzato da un gruppo di Soci del Gruppo Romano Amici della Ferrovia, con l’appassionata collaborazione delle Ferrovie Complementari della Sardegna. Il programma partiva dall’ imbarco serale a Civitavecchia su una nave della Compagnia Tirrenia con arrivo a Olbia la mattina seguente. A seguire viaggio in treno F.S. fino a Macomer, da dove in autobus avremmo proseguito per Sorgono ove ci attendeva il treno speciale arrivato la sera prima da Cagliari, trainato dalla locomotiva a vapore “Reggiane” n° 400. Partenza per Mandas e da qui proseguimento per Lanusei. Dopo la cena e il pernottamento in albergo, era previsto il ritorno da Lanusei a Cagliari in coincidenza con la nave in servizio notturno con destinazione Civitavecchia. L’attesa del viaggio tra noi soci G.R.A.F. era molto sentita, perché già all’epoca si ventilava la chiusura a breve delle F.C.S. e soprattutto il pensionamento della 400, ultima tra le locomotive a vapore F.C.S. ancora funzionante. Personalmente aggiungevo la mia attesa per conoscere la Sardegna, dove non mi ero mai recato prima di allora. La sera della partenza, un piovoso venerdì di aprile, il nostro gruppo si ritrovò a Roma Termini per prendere posto sul treno per Civitavecchia Marittima; mentre prendevamo posto sul convoglio l’altoparlante di stazione annunciò che “causa sciopero marittimi non è garantito il proseguimento per la Sardegna”: che fare? Non ci scoraggiammo per lo spiacevole contrattempo e decidemmo di andare comunque a Civitavecchia Marittima, dove arrivammo sotto una pioggia torrenziale: la nave bianca, illuminata, accogliente, attendeva sulla banchina, ma risultava inaccessibile a causa dei picchetti dei marittimi in sciopero. La Stazione Marittima era piena di viaggiatori che bivaccavano aspettando un’improbabile conclusione dello sciopero. Erano le dieci di sera, avremmo dovuto essere la mattina dopo a Macomer o comunque in Sardegna. Il traghetto F.S. era già salpato con a bordo chi tra noi l’aveva scelto al posto della nave Tirrenia. Qualcuno ebbe l’eccellente idea di dormire a Civitavecchia, di tornare a Roma nella prima mattinata e con il primo aeroplano in partenza per Cagliari raggiungere il nostro treno a Mandas. Alcuni, tra i quali io, accettarono l’idea e, verificati gli orari dei treni per Roma e prenotato telefonicamente i posti sull’aeroplano raggiungemmo un albergo. La mattina dopo tutto andò secondo le previsioni: treno per Roma Termini, autobus per Fiumicino, aereo per Cagliari Elmas, taxi per la stazione F.C.S. di Piazza della Repubblica, dove arrivammo verso le undici. Presentatisi quali “appartenenti al gruppo”, ricevemmo una calda accoglienza dei ferrovieri delle FCS., salimmo sull’automotrice diretta a Mandas, dove dopo le quattordici avremmo dovuto incontrare il nostro treno, partito da Sorgono alle dieci. La mia prima impressione della Sardegna fu di stupore: le piogge di aprile avevano reso splendidamente verdi le colline, tra le quali la ferrovia serpeggiava salendo verso gli altipiani dell’interno. Greggi brucavano pigri, in un paesaggio che ricordava l’Irlanda, sullo sfondo di montagne dalle forme strane, diverse da quelle dell’Italia continentale, come strane mi apparivano le stazioni dismesse e le case cantoniere dall’intonaco scrostato. Il mio stupore continuò a Mandas: dietro la rimessa, si consumavano file di locomotive ridotte a scheletri rugginosi nell’erba, i binari consunti e grigi sotto una pioggia sottile. 

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La stazione odorava d’antico, nell’ufficio movimento troneggiava un imponente tavolo di legno coperto di macchine telegrafiche di lucido ottone. Il nostro treno non c’era: partito da Sorgono, pioggia, nevischio e problemi tecnici alla locomotiva lo avevano costretto a  una marcia lentissima e si trovava ancora nei dintorni di Tonara. Così dopo un’ora trascorsa tra caffè, ufficio movimento ed esplorazione dei relitti di locomotive, salimmo sulla prima automotrice utile, quella in servizio tra Cagliari e Sorgono, per andare incontro al treno trainato dalla 400 più avanti sulla linea. Il binario si inoltrava tra le quercete del Sarcidano e serpeggiava tra colline di aspetto aspro e severo: a Nurallao ci informarono che il treno era fermo a Laconi, dove finalmente, nelle nebbia, vedemmo la luce dei fanali della 400 ferma sul tronchino. Incontrammo, con loro grande loro meraviglia, gli amici che ci ritenevano tornati a Roma per il disservizio della Tirrenia e assistemmo all’incrocio, in quella sperduta stazioncina, tra il nostro “misto” (locomotiva, un carro a sponde con il carbone, un bagagliaio, una carrozza) e due automotrici, quella sulla quale avevamo viaggiato proveniente da Cagliari e quella partita da Sorgono, la cui marcia era stata rallentata dal treno a vapore. 

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Partite le automotrici, la 400 manovrò il treno fuori dal tronchino  portandosi al rifornitore d’acqua: si muoveva con una “voce” sommessa, insolita per me abituato allo scappamento sonoro, anche in manovra, delle 625 e delle 740 F.S.
Una piccola squadra di ferrovieri delle F.C.S. le girava intorno, salì sui praticabili, si arrampicava sul rifornitore, riempiva le casse dell’acqua; macchinista, fuochista, capo deposito le si facevamo attorno, toccando bielle e oliatori. Questa sorta di danza silenziosa e pacata sembrava un’espressione di affetto verso la veneranda locomotiva, quasi fosse stata una creatura viva da accudire. Scese la sera e con essa una pioggia fredda e sottile, che a tratti forse era soltanto nebbia che sfumava i contorni del paesaggio. Solamente il treno sembrava esistere, fuori dallo spazio e dal tempo, in questa silenziosa stazione tra le colline. 

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Si partì, accompagnati dal “respiro” della 400, ridiscendemmo verso Nurallao mentre agli amici ritrovati sul treno narrammo l’odissea per  raggiungere la Sardegna. Apprendemmo così che, partiti in orario da Sorgono, dopo un po’ la macchina aveva cominciato a subire riscaldi ai cuscinetti delle ruote e le rotaie bagnate avevano contribuito a far ritardare il treno. In qualche punto, per avanzare, i ferrovieri erano scesi a gettare secchi di sabbia sotto le ruote. Invidiammo i tre appassionati inglesi presenti nel Gruppo, arrivati in Sardegna due giorni prima, che avevano avuto l’idea e la buona sorte di poter compiere il percorso da Cagliari a Sorgono profittando del trasferimento vuoto del treno. Durante la sosta a Nurallao per la verifica della macchina visitammo il vagone bagagliaio. Visitare è la parola giusta: conteneva, oltre a una completa officina per l’assistenza alla 400, una stufa accesa, una fornita dispensa e brande per il gruppo di ferrovieri che lo abitava (capo deposito e operai): non ho mai visto un “caboose” americano, ma penso che sia eguale: una sorta di casa viaggiante in luoghi anche inospitali. Qui il Gruppo organizzatore decise, dato il ritardo ormai dilatatosi oltre misura, di chiedere a Mandas l’invio di un locomotore diesel-elettrico Lde, per aiutare la 400 nella salite che l’attendevano e per cercare di recuperare un po’ del tempo perduto, essendo attesi per cena a Lanusei che dista 130 chilometri richiedenti, però, cinque ore per essere percorsi ed erano ormai trascorse le diciotto. Attendemmo l’arrivo del locomotore nella successiva stazione di Sarcidano, un tempo origine della diramazione per Villacidro (chiusa all’esercizio nel 1958): isolata in mezzo a colline deserte, era ormai un grande piazzale vuoto con un fabbricato viaggiatori umido e malandato. La 400 si spostò in coda al treno; preceduto da un fischio prolungato che per un istante stemperò la malinconia del luogo, ecco il locomotore di rinforzo. Iniziò la salita verso Isili e Mandas: grazie alla cortese ospitalità del Maestro, presi posto in cabina della 400, dove ci stringemmo in due metri quadrati pieni di carbone e ferri da fuoco. Il Maestro, non molto contento del rinforzo, ad un certo punto della salita sollevò la leva del regolatore prendendosi la soddisfazione di far sentire la voce della macchina che, in verità, mi parve un po’ sfiatata. Era ormai buio quando arrivammo a Mandas, dove macchinista, capo deposito e tecnici portarono la 400 nella rimessa per una verifica; la decisione finale fu di arrivare a Lanusei a trazione diesel, rimorchiando in coda la locomotiva per poterla utilizzare il giorno dopo nel ritorno a Cagliari. Si ricompose nuovamente il treno nell’ordine Lde – carrozza – bagagliaio – carro a sponde – 400 e riprendemmo il viaggio lungo il binario per Seui. 
Erano ormai trascorse le venti e il nostro orario, per chi non conosce le Complementari Sarde, può sembrare addirittura ridicolo: per arrivare a Lanusei, distante 100 km., alla velocità commerciale di 25 km/h, occorrono quattro ore (due da Mandas a Seui, altre due fino a Lanusei). Per fortuna l’ottima agenzia organizzatrice aveva avvisato l’hotel del nostro ritardo e le F.C.S. predisposto l’autobus per il trasferimento in albergo dalla stazione di Arzana (cinque km di strada da Lanusei contro i dieci di ferrovia e quasi mezz’ora di tempo in meno). Alla stazione di Orroli – Nurri nuova fermata per verifica alla 400: il Maestro scosse la testa, i cuscinetti scaldavano troppo, il diesel-elettrico in trazione era troppo veloce. Così scelse di tornare a Mandas con il carro e il bagagliaio per cercare di sistemare la locomotiva, assicurando la trazione a vapore almeno per il rientro a Cagliari del giorno dopo. La 400 fece pressione, poi venne staccata allontanandosi lentamente con il suo trenino; scomparve alla vista, ansimando fioca, perdendosi nella notte. Fui ospitato in cabina del locomotore Lde fino ad Arzana. A distanza di tanti anni il ricordo di questo viaggio nella notte non si è offuscato: il binario illuminato dai fari e intorno una terra buia e sconosciuta, forme di alberi appena intraviste e qualche rara luce lontana, tracce di brusche frenate ai passaggi a livello, chiusi da catenelle, da attraversare a vista (la linea era chiusa, impresenziata, non c’erano mai treni a quest’ora); la fiasca di “filuferru”, grappa casalinga, che i ferrovieri sardi si passavano e mi passavano per scaldarci; lo stupore della neve tra le rotaie, nella  tratta più alta; una sensazione di infinito ed interminabile snodarsi di curve e controcurve; le stazioni fiocamente illuminate, quasi oasi in un deserto buio, dai nomi impronunciabili (Esterzili, Ussassai, Anulù); la fermata fuori dal tempo a Gairo, con le lanterne a petrolio riflesse nel lucido ottone delle macchine telegrafiche, nella penombra antica dell’ufficio movimento. L’arrivo ad Arzana interruppe alla fine il sogno: scesi dal treno venimmo quasi atterrati dal Maestrale che soffiava fortissimo. Salimmo sull’autobus delle F.C.S. e finalmente ecco un’ottima cena sarda, graditissima anche se era già passata l’una del mattino. La mattina dopo non costò fatica alzarsi con la prospettiva di un’altra giornata entusiasmante: il nostro treno (locomotore e carrozza) era pronto nella simpatica stazione di Lanusei, vi era il sole e in lontananza, oltre le colline dell’Ogliastra, si vedeva risplendere il Mar Tirreno. Una telefonata da Mandas annunciò che, grazie ai tecnici che avevano lavorato fino a tarda notte, la 400 era stata riparata e ci aspettava per il rientro trionfale a Cagliari.  

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Partimmo e, finalmente, si svelò il mistero del paesaggio nascosto dal viaggio notturno: la ferrovia si arrampica serpeggiando sopra Lanusei, affronta un’elicoidale, scala le colline: il mare si allontana e si scoprono le aspre montagne che salgono al Gennargentu innevato. Bosco e macchia si alternano a tratti nudi dove il maestrale soffia violento: in un punto particolarmente esposto, un alto e solido muro fiancheggia il binario ed i ferrovieri ci spiegarono che fu costruitoperché qui il vento disturbava la marcia dei treni. Dopo Arzana e Gairo, ci inoltrammo nel tratto più bello e selvaggio della linea,lontano da centri abitati: il binario entrava in valli profonde, chescavalcava su ponti vertiginosi, lambiva cascate e boschi di querce,mentre si alzavano sullo sfondo i “tonneri”, strane montagne dallepareti verticali di roccia e dalla cima piatta; la solitudine assoluta, chedura per chilometri, è interrotta, relativamente, soltanto dalla presenza di rari caselli ormai abbandonati.

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Sostiamo a Seui, unica oasi in mezzo al deserto: qualche persona si affacciò in stazione a guardare meravigliata il treno perché, essendo domenica, la ferrovia non avrebbe dovuto funzionare. Di nuovo via e via tra le montagne solitarie, a incontrare la neve, bassa e povera sui prati e tra le macchie.
L’impressione più forte fu l’arrivo alla fermata di Anulù, sotto un sole pallido: un casello chiuso e scrostato, traverse scure tra le querce, un tronchino rugginoso, il tutto immerso in un silenzio profondo.

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Si viaggia a mezza costa, in orizzonti vasti, sotto un cielo ormai limpido: la neve scorre veloce sotto la corsa del treno; passiamo presso caselli solitari, poi scendiamo tra gallerie scavate nella roccia rossa, tra le querce, al grande ponte sul Flumendosa, poi traversiamo una campagna brulla e deserta, mentre lontani paesi e prati verdissimi fungono da sfondo alla scenografia naturale difficilmente immaginabile per chi non l’ha vista. E’ ormai mezzogiorno quando arrivammo a Mandas sotto un ultimo scroscio di pioggia: il locomotore si staccò, agganciò alla carrozza il carro del carbone e il bagagliaio, ed ecco la 400 uscire in manovra dalla rimessa, con la sua voce pacata, accostandosi al treno: sono tornati i sorrisi, sul volto dei ferrovieri F.C.S , mentre posiamo per le foto ricordo davanti alla macchina calda e lucida, sotto un nuovo sole, prima della corsa verso Cagliari.

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La 400 caracolla allegra, affrontando con piglio curve e controcurve, facendo sentire la sua voce: alle stazioni si era sparsa la voce che la vaporiera era in marcia, gruppetti di persone circondavano la macchina mentre i ferrovieri la controllavano. Troppo poco durò questa corsa, troppo presto arrivammo a Cagliari, dove una piccola folla attendeva la 400, che si fermò piano al paraurti: il Maestro scese orgoglioso a proclamare il suo personale record: “Abbiamo mantenuto l’orario dell’automotrice”.

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Avremmo voluto restare con i ferrovieri, accompagnare la macchina in deposito, ma c’era tempo solo per rapidi saluti: la nave e l’aeroplano ci aspettavano. Il volo per Roma decollò veloce e laggiù, oltre le nuvole, lasciò la piccola ferrovia, la terra aspra e dolce, la gente schietta e ospitale: presto tutto ciò avrebbe avuto il sapore del ricordo, oggi, dopo tanti anni, del sogno.

Autore: Valerio Varriale
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